Intervista a Federica Zammarchi, da Abbadia al palco del Primo Maggio

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di Antonio Pacini

Ecco un altro talento del quale Abbadia può andare orgogliosa e che fa parte di quella grande produzione di artisti che contraddistingue il nostro paese. Si tratta di Federica Zammarchi, musicista, cantante fenomenale voce degli Agricantus, storico gruppo siciliano di musica folk che lo scorso primo maggio si è esibito al prestigioso concerto in Piazza San Giovanni a Roma. Con Abbadia News abbiamo avuto il piacere di incontrarla per parlare a tutto campo della sua carriera ma anche dei problemi che persistono ad Abbadia. Buona lettura.

Come hai conosciuto gli Agricantus e quando hai deciso di lavorare insieme a loro? 

Qualche anno fa registrai un disco autoprodotto. Un lavoro di contaminazione tra rock e jazz, dedicato a David Bowie (che ho sempre amato alla follia), con arrangiamenti miei su brani famosissimi, eseguiti in maniera eccezionale da una band straordinaria di grandi musicisti, con i quali tuttora lavoro (Marco Siniscalco, Emanuele Smimmo, Antonio Jasevoli). Si intitola “Jazz Oddity” e fu pubblicato da un’etichetta indipendete piuttosto nota, la CNI. Dopo quel disco ne ho pubblicato un altro, sempre con loro, dedicato a Jimi Hendrix The Jazz Cries Jimi. Così siamo entrati in contatto, così il capo di CNI Paolo Dossena, ha avuto modo di ascoltare anche alcuni brani composti da me ed ha pensato di coinvolgermi nella nuova produzione Agricantus, gruppo storico della musica ethno/world, da sempre parte di CNI, che riprendeva in quel momento l’attività. Mi ha presentato Mario Crispi e Mario Rivera, due dei fondatori del nucleo originario, e per qualche motivo ha dedotto che avremmo fatto qualcosa di buono lavorando insieme, nonostante io provenissi da un percorso di formazione totalmente diverso, e così è stato. Dopo qualche momento di difficoltà per via dei diversi percorsi di provenienza, abbiamo iniziato a collaborare a 360° ed abbiamo tirato fuori un grandissimo nuovo disco.

Al Concerto del Primo Maggio hai cantato una canzone del nuovo album, il primo dopo molto tempo di silenzio. Che sensazioni hai provato ad esibirti su quel palco?

Per la verità ne abbiamo presentati due, entrambi tratti dal nuovo lavoro “Turnari” (ritornare, per l’appunto). Erano 12 anni che gli Agricantus non si esibivano sul grande palco del Primo Maggio, per me era la prima volta. Che cosa ho provato? Emozione, tensione, una felicità enorme per poter dividere quel palco così prestigiorso con una band che ha fatto la storia della musica ethno/world in italia e nel mondo. Era una responsabilità enorme! Oltre a questo, ho vissuto e rivissuto discorsi e sogni fatti con la mia amica Silvia Trabalzini, come una sorella per tanti anni, che è venuta a mancare qualche anno fa. Era una giornalista eccezionale, intelligente ed acuta. Sogni di ribellione e di evoluzione, di speranze realizzate. So che in qualche modo lei sa che c’ero, e che quel concerto l’ho fatto anche per lei, per tutte e due.

Quali sono le tue origini musicali e cosa ti ha portato ad approdare al folk?

Ecco, questa è difficile: cercherò di sintetizzare. Io vengo dal rock, cantavo Janis Joplin e Led Zeppelin e tuttora amo quel periodo musicale. Quando ho deciso di studiare, mi sono dedicata al jazz, che mi ha aperto la prospettiva musicale a tutto tondo, facendomi amare Ella Fitzgerald e Billie Holiday, Sinatra e Chet Baker. Ho passato oltre 10 anni a studiare, l’armonia, la teoria, l’esecuzione, il fraseggio, per poi trovare nel baricentro di tutta questa musica così diversa la mia “via”, che è molteplice e mutevole e non incanalo in nessun genere. Sarebbe ridicolo. Ho imparato a scrivere, ad arrangiare per orchestra jazz, per orchestra d’archi, ad usare strumenti elettronici e sequencer e non credo che smetterò mai di trovare nuove cose da imparare, studiare, portare nel mio mondo. Ho molti progetti diversi, come il duo cross/electro Antichords portato avanti con Davide Alivernini, polistrumentista di grande talento (www.antichords.net), prodotto dalla stessa etichetta. Gli Agricantus fanno parte del mio essere e del mio divenire. Classificarli come gruppo “folk” è decisamente riduttivo: c’è un’enorme componente di elettronica nei brani, una grande contaminazione con il pop, una radice comune nella musica dub (Massive Attack, Triky, Dead Can Dance ecc), quindi non è un approdo ma un’evoluzione comune, con grande presenza di elementi etnici. di cui Mario Crispi padroneggia gli strumenti tipici (fiati arcaici e strumenti di sua invenzione) e Mario Rivera conosce ed interpreta le dinamiche, occupandosi del sequencer e dei mix, con l’apporto fondamentale di Giovanni Lo Cascio alla batteria (che è un carissimo amico da anni, oltre ad essere un musicista strepitoso) di Giuseppe Grassi, il più giovane di tutti noi, che padroneggia gli atrumenti a corda tipici dell’area mediterranea. E contaminazione totale. In questo mondo mi trovo perfettamente a mio agio, e contribuisco in varie vesti (come cantante, arrangiatore, compositore ecc), per quello che posso.

Cosa vuol dire suonare musica folk e che importanza ha questo genere per il nostro tempo?

Beh, ho già specificato che folk non è proprio il termine giusto. Anche se capisco, perché è in dialetto (palermitano, nello specifico). In qualsiasi lingua, o dialetto, del mondo, parlare di radici e di problemi legati al territorio ha una grande importanza di per sé, indipendentemente dal dove. Ormai mi sento un po’ siciliana nell’anima, per contenuti, testi, ragioni. Ma da noi come ben sapete la situazione, in qualche modo, è somigliante, anche se meno sfortunata. Il nostro territorio nazionale è così ricco di piccole e grandi realtà. Di problemi simili e diversi. Portarli in musica è il modo più diretto per renderli reali, per dargli una collocazione e una risonanza. Ho passato un breve periodo in Ruanda a insegnare musica, e quando incontri un popolo la cui radice etnica è stata strappata, che non conosce la musica dei suoi avi perché gli è stata interdetta, ti rendi conto che vivere in un paese libero e dimenticarsi le proprie origini è un vero delitto.

Nsunnai tradotto vuol dire “ho sognato”. Hai dei sogni che pensi si possano avverare? Ce lo potresti confidare almeno uno?

Il testo è legato ad una storia personale dell’autore (Mario Crispi), ma come ogni canzone, ognuno ci trova il suo significato è bello anche per questo. Sogni… Cosa posso dire? Sono una persona fortunata. I miei li ho realizzati quasi tutti. Volevo fare la musicista di professione e lo faccio, volevo scrivere musica mia e lo faccio, volevo un gruppo di grande spessore ed impatto ma sofisticato allo stesso tempo e ne ho ben due…Volevo suonare con i più grandi jazzisti italiani e ci ho suonato…Volevo insegnare musica nella scuola più prestigiosa d’Italia e lo faccio… Sogno di andare a suonare all’estero, presto, di conoscere nuove realtà, di avere nuovi stimoli, di continuare ad imparare… L’unico sogno che non ho realizzato è quello di condividere la mia realtà quotidiana con qualcuno. Ma come si dice, non si può avere tutto dalla vita, no?

E con gli Agricantus quali sono i progetti per il futuro?
Abbiamo un disco in uscita che nel giro di un paio di settimane sarà disponibile, ed una tournée estiva già abbastanza intensa, la nostra speranza è che sia l’inizio di una nuova grande avventura che riporti gli Agricantus ad un’assidua, rinnovata, presenza nel mondo della musica italiana ed estera.

Hai passato l’infanzia e l’adolescenza ad Abbadia, quindi conosci bene le nostre antichissime tradizioni che in quest’epoca rischiano di perdere il loro significato originario. Che messaggio lanceresti a un giovane badengo a tal proposito?

Temo che nel ripondere a questo sarò piuttosto “impopolare”. Me ne sono andata da Abbadia da più di 20 anni, trasferita a Roma da 12. Non mi sono mai sentita “badenga”, anche se ho sempre amato il paese e le sue particolarità architettoniche ed etnografiche. Mi sento profondamente “amiatina”, il mio legame profondo è con la montagna, e con gli alberi, col castagneto fin poco sopra il paese e con la faggeta che da lì copre fino alla vetta. Con la grotta dell’Arciere, il Sasso di Dante e il Prato delle Macinaie. Le rare volte che torno, a parte passare un po’ di tempo coi miei, scappo lassù, a Fonte delle Monache a riempire un paio di bottiglie d’acqua da portarmi a Roma, o alla Cipriana a saccheggiare i ciliegi selvatici. Abbadia non mi ha mai trattata come una “di casa”, ero una ragazzina strana, piuttosto “vessata” e poco accettata dai ragazzi della mia età. Non ho mai veramente vissuto il paese, non con l’affetto e l’attaccamento con cui lo vivete voi. Le tradizioni che io ricordo sono flash di persone al bar, da lontano, gruppetti di ragazzi seduti davanti al Monumento, da lontano. Posti dove io non potevo andare. Giusto un anno fa, dopo qualche secolo, mi è capitato di fare un giro per le Fiaccole e non mi ha fatto un bell’effetto. Il significato originario delle fiaccole era appunto quello di riunire la comunità, al riparo dal freddo, per poter passare insieme una sera speciale. Le tradizioni di un paese sono le persone che ne fanno parte, quello in cui credono, quello che ritengono giusto e insindacabile difendere. Non mi è mai sembrato che la diversità, o l’estro creativo, fossero tra questi valori quando stavo lì. Finché i badenghi se ne staranno seduti al bar a parlare della macchina nuova o dei cerchi in lega appena comprati, mentre si lamentano che Abbadia non fa più parte della Comunità Montana, che il lavoro è di bassa qualità, che i concerti e gli intrattenimenti estivi sono sempre gli stessi e sono noiosi, che il Servadio è in disuso e sprecato da anni (e potrei continuare fino a domattina…). Difficilmente ci sarà una vera propria “rivalutazione” del territorio, perché lamentarsi non basta, tocca rimboccarsi le maniche e fare. Inventarsi una nuova vita, sacrificare la certezza per l’incertezza. Che messaggio lancerei a un giovane badengo? Rischia! Combatti per quello che ami e difendi quello in cui credi. Ma abbi coraggio, perché non si ottiene niente senza rischiare tutto. Riprendete in mano gli spazi comuni, Piazza Grande, il chiostro del Monastero, il Servadio, il campo sportivo, il pattinaggio, il cinema! (santo cielo, quel posto ha l’acustica più bella che abbia mai sentito e non c’è mai niente) e fateci suonare i musicisti, fateci dipingere gli artisti, fateci parlare gli oratori e gareggiare gli sportivi… E, soprattutto, difendete le persone, perché non c’è comunità, non ci sono tradizioni, senza le persone che le ricordano!

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Commenti

4 commenti a “Intervista a Federica Zammarchi, da Abbadia al palco del Primo Maggio”

  1. ugo

    beh se con le nuove amministrazioni si potesse ripartire veramente dalle eccellenze ([quelle vere!] ed investendoci) che questo paese ha in qualche modo “generato” e sta continuando a generare…ecco questo si sarebbe un bel modo per riappropriarsi della propria socialità…ed una rinnovato brava a Federica…:-)

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  2. Giulio Bisconti

    Sono una persona anziana di età e profondamente attaccata al mio paese,quello che hai scritto non mi ha colpito perché è quello che penso. Ci vuole coraggio, occorre metterci la faccia,un colpo di reni… speriamo che ti ascoltino.Auguri Giulio Bisconti

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