Reti neurali: studio americano ribadisce la centralità del “social networking”

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di Ilaria Martini 

È notizia di pochi giorni fa la pubblicazione dei risultati di una ricerca dell’università del Texas, che ha studiato il funzionamento della rete neurale per individuarne i punti deboli responsabili dei problemi di memoria. Le reti cerebrali secondo questa ricerca sono formate da gruppi di nodi altamente interattivi, non molto diversi dai nodi sociali di Facebook e Twitter.

Il cervello umano contiene secondo una stima tra 1013 e 1015 sinapsi e i neuroni connettendosi gli uni agli altri formano delle zone con specifica funzione, aree a loro volta interconnesse. Equiparando i singoli neuroni agli utenti delle reti sociali è stato possibile studiare il cervello secondo un approccio olistico, ovvero considerandolo nel suo contesto più ampio. Grazie allo stesso metodo che la matematica utilizza per studiare le reti sociali, i ricercatori hanno scoperto un legame tra la struttura sinaptica delle aree e la memoria a lungo termine. Su una base di popolazione compresa tra i 20 e gli 89 anni, gli studiosi hanno provato che all’aumento dell’età sono associate reti più fluide. Questo significa che sopra i 50 anni la demarcazione tra le varie reti diventa più approssimativa e meno resistente, con un conseguente peggioramento della memoria a lungo termine. È una nuova frontiera per studiare le malattie celebrali, ma anche l’ennesima vittoria del modello del network sociale, questa volta in un campo più inedito come quello medico.

ebrain1Le reti virtuali, base per questa ricerca americana, sono organizzazioni di persone digitali all’interno dell’ambiente comune internet. Con l’avanzare della società dell’informazione queste reti sono diventate non solo più estese e palpabili, ma sempre più orizzontali. I social media sono l’emblema di una società ramificata, connessa punto a punto, proprio come quelle sinapsi che collegano i neuroni umani. Il web 2.0 più che una rivoluzione strutturale è una rivoluzione di approccio alla rete stessa: non esiste più un percorso predefinito e già predisposto per il destinatario, ma la narrazione è personalizzabile grazie al grande ipertesto virtuale. Ne deriva una comunicazione sempre più plurale, secondo un modello “many to many”, esattamente come un neurone che non è collegato solo con quello vicino, ma con molti altri, secondo un ordine non gerarchico. Nelle reti comunicative digitali sparisce il modello broadcast, ovvero la diffusione di un messaggio unidirezionale da emittente a ricevente, che esclude un qualsiasi ritorno da parte di quest’ultimo, per lasciare spazio all’affermazione dell’orizzontalità.

Caratteristica essenziale del web è l’immediata e vasta possibilità di feedback, cioè di risposta e reazione da parte del ricevente, in una comunicazione bidirezionale in cui tutti gli attori contribuiscono a negoziare i valori in gioco. Teoricamente non c’è limite quantitativo ai punti che formano la rete e quindi all’estensione delle connessioni, ma a differenza del cervello umano che nasce naturalmente abilitato alle connessioni sinaptiche, per la digitalizzazione esiste il limite del gap generazionale, economico e strutturale. Davanti alle nuove reti sociali orizzontali viene spontaneo domandarsi che senso abbia la mediazione. C’è ancora spazio in questa società densa di informazioni e competenze per figure che medino dalla fonte all’utilizzatore finale? – giornalisti, medici, avvocati-. Viviamo in un’era in cui tutti i filtri vengono bypassati e le barriere cadono, ma sarebbe sbagliato credere fermamente nel potere della disintermediazione. Proprio per il grande caos informativo e la sensazione di insicurezza diffusa c’è un disperato bisogno di bravi mediatori che sappiano spendere le loro competenze nella società.  Dovranno essere filtri più fluidi e collaborativi che in passato, ma comunque restano fondamentali per interpretare e restituire una parte di complessità che ci è impossibile afferrare in maniera autonoma.

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