editoriale. Lavorare per il bene comune, nostra unica salvezza

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Un articolo dello scorso 20 febbraio a firma Antonio Pacini, documenti stoici alla mano, parlava della cosiddetta tigna badenga che caratterizzava, e caratterizza, l’abitante di Abbadia; ivi descritto come “brusco e diffidente ma anche molto sincero e generoso”. Un modo di fare irsuto, schietto, onesto, in realtà costante prerogativa dei popoli d’alta quota; coloro i quali, soprattutto per ragioni geografiche, vivono lontani dai centri di potere, isolati per destino, necessità, abitudine.

Per quanto ci riguarda la cosiddetta tigna - parola derivante dal latino tìnia, la cui etimologia ricorda la tarma, il lepidottero – è sopravvissuta fino ai giorni nostri e appare, nel bene e nel male, dura a morire. Se da una parte è da intendersi come genuinità forse non dissimile dall’idea settecentesca del buon selvaggio, dall’altra rischia di creare disagio per esempio nei turisti che possono scambiare un atteggiamento distaccato nell’apparenza con un cinismo disdicevole e controproducente.

Entro le mura, fra conoscenti, durante le cene fra amici, ci si intende. Gli altri, probabilmente, ci capiscono un po’ meno. Forma mentis che ha prodotto qualche diffidenza. E’ pur vero, banalizzando e semplificando, che il mercurio ha portato denaro, case, investimenti e ricchezza un po’ per tutti; ma è vero anche che il tesoro, il malloppo, il bottino se ne andava a Roma e in Allemagna. Ecco spiegato, forse, in parte, l’atteggiamento di diffidenza.

Da aggiungere che mentre noialtri scendevamo in profondità, chilometri nel sottosuolo, altrove s’investiva in vigneti, terme, alberghi, scuole, in turismo e in infrastrutture. La conseguenza, una volta terminata l’esperienza mineraria, e sono passati più o meno quarant’anni, è stata deleteria. Ci siamo trovati con un pugno di mosche. Costretti a ricominciare tutto da capo. In difetto verso il mondo esterno che nel frattempo era andato avanti, inseguendo un’idea di progresso comunitario a lungo termine.

Tempo dieci anni e Abbadia s’è spopolata, svuotata. Passando dai quasi 9.000 abitanti degli anni ’70 agli attuali 6.000-e-qualcosa (di cui oltre il 10% stranieri). Senza lavoro svaniscono le ragioni stesse di una scelta residenziale, avoja a parlare d’attaccamento al paese. Ma il tempo intanto è passato. Siamo entrati nel nuovo secolo, abbracciando la tecnologia come e forse meglio di altri (Amtec, “app” all’avanguardia, forum su internet, una compagnia telefonica locale, e perfino, concedetecelo, questo sito, e molto altro).

Purtroppo la diffidenza di cui sopra ha portato qualcuno, una minoranza, a diffidare perfino del vicino e dell’amico. Durante qualsiasi impresa, e ne siamo un esempio, si percepisce in pari misura ammirazione e ostilità, avallo e sospetto, complimenti e invidia. Ma forse questo accade un po’ ovunque, non crucciamoci troppo.

L’importante è sapere che il divario finalmente è stato colmato. Quello che adesso rimane da fare è divenire una comunità amica, dove le differenze – politiche, sociali, economiche – smettano di essere percepite come un ostacolo, un problema o un miraggio, ma vengano finalmente intese come una leva strategica. Unire le forze e procedere insieme, uniti verso un progresso intelligente, condiviso, cristallino, dove alla comune prevalga il concetto di comunità. Come succede, ad esempio, per la Festa Medievale, o per le Fiaccole, dove tutto il paese – monarchici o repubblicani non ha importanza – si unisce per un nobile scopo. Lavorare per il bene comune: sarà la nostra salvezza, l’unica.

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Copertina: Signorini, “Paese di mare”.

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