“La tecnica è neutra, ma la tecnologia non è la tecnica” Considerazioni pre-autunnali di Don Marco Belleri

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di Don Marco Belleri

Per la seconda volta siamo lieti di ospitare una lunga riflessione, profonda e controversa, sullo “stato dell’uomo” scritta da Don Marco Belleri, parroco (di Seggiano) dallo sguardo severo e la penna fervida. Buona lettura.

Certo, è nella natura stessa dell’uomo tendere a migliorare; il problema è in cosa e con che criteri di fondo: va considerata sia la bontà di ciò che si vuole ottenere, sia i mezzi per ottenerli. Ad esempio se ottengo la pace con la forza, schiacciando le persone, non è lo stesso che se la ottengo col dialogo; è diverso il valore morale dell’azione, ma è diversa anche la pace ottenuta. L’uomo necessariamente incide sulla natura per sopravvivere e anche per esprimere se stesso, ma può percorrere due strade: inserirsi in questa immensa varietà e insieme unità della vita e modificarla ma cercando l’armonia con essa – nella coltivazione, nell’abitazione, nel trasporto, nelle comunicazioni, nei rapporti sociali e in tutti gli aspetti della vita – oppure ignorarla, considerarla una limitazione e semplificare il più possibile per avere tutto sotto controllo, rendendo la complessità della vita prossima a una equazione lineare, nell’agricoltura come nella produzione, nei trasporti come nell’economia; e di conseguenza nei rapporti tra gli uomini (anche questi ormai controllati da “esperti”). L’uomo occidentale ha evidentemente percorso questa seconda via.fer 2

Per questo vanno ripensati alcuni assiomi dati come intoccabili. Primo fra tutti la convinzione che il progresso tecno-scientifico è neutro e ciò che conta non è riflettere sul valore morale e sociale di tante innovazioni in se stesse, ma solo su come governarle, su come usarle per il bene di tutti.  In realtà tutto quello che facciamo e il modo come lo facciamo dipende da una precisa visione del mondo che non è mai neutra; i vari aspetti e innovazioni della modernità vanno dove vogliono, hanno le loro logiche interne che ben poco hanno a che fare col bene, con la saggezza. La tecnica è neutra, ma la tecnologia non è la tecnica. La tecnica comprende quegli strumenti che aiutano l’uomo, ma senza sostituirlo, permettendo la diversità tipica dell’arte, con la cura e la fatica e la riserva di tempo racchiusi in ogni oggetto. La seconda è una crescita abnorme dello strumento che sottopone l’uomo al codice di funzionamento della macchina e deforma il comportamento quotidiano, cambia i valori, impoverisce la cultura.

Eppure  ci sono ben poche eccezioni di fondo alla mentalità industriale, che viene anzi considerata una delle espressioni più evidenti della superiorità dell’occidente.  La stessa scienza non è né neutra né universale, dal momento che è legata alla visione del cosmo occidentale ed entra in contrasto con quella di tante altre culture, naturalmente ritenute arretrate. Purtroppo  una riflessione su questi temi, sulla non neutralità dei mezzi (quasi sempre nati dagli interessi di qualcuno, quando non addirittura come sottoprodotti della guerra, come i concimi chimici, il nucleare, internet), è quasi completamente assente nel mondo occidentale, mentre è stato approfondito in modo magistrale da Gandhi (profondo conoscitore dello spirito e del mondo occidentale e allo stesso tempo legato alla saggezza che è “antica come le montagne”). Per le innovazioni della modernità non è stata fatta alcuna riflessione a monte; si è dato per scontato che andare più veloci, fare meno fatica, comunicare in modo più rapido, produrre di più e più rapidamente, fosse automaticamente un bene e un progresso. Così non si sono fatte valutazioni morali sull’industria, la televisione, la plastica, i trasporti, l’agricoltura chimico-industriale, gli elettrodotti, i cellulari, i computer, internet, ecc.; eppure ciascuna di queste tecnologie ha distrutto virtù civili, capacità artigianali, cultura e comunità in maniera esponenzialmente maggiore che qualsiasi altro fenomeno. Non è un problema di buoni o cattivi, ognuno di noi ha in sé la sua parte di bene e di male, il suo limite e la sua grandezza, le sue debolezze e le sue cose belle; il problema è un sistema di pensiero che sta umiliando la nostra umanità.

fer 7Tutto ciò che si fa in ogni campo non è legato alla bontà, alla saggezza, alla verità di ciò che si fa, al bene dell’uomo e della terra, ma alla redditività economica; l’economia di per sé sarebbe l’arte di ben governare la casa ma ormai è ridotta alle leggi artificiali del mercato. La legge unica è far girare i soldi; per farlo devo trovare delle giustificazioni alla marea di iniziative economiche stupide ma che diventano intelligenti con l’aiuto di esperti i quali dimostrano il valore sociale di ciò che si fa e bollano come ignoranti e incompetenti quelli che si oppongono. C’è un tema che è sulla bocca di tutti: la crisi, la disoccupazione, i giovani senza lavoro. L’unica soluzione, ripetuta in tutte le salse, sembra quella di aumentare i consumi, stimolare la crescita, innovare. Riguardo all’innovazione forse non ricordiamo che è stata l’industria, il ‘progresso’ a togliere prima le persone dalla terra, poi a generare una quantità enorme di lavoratori in esubero (assorbiti da un terziario che è cresciuto come un cancro); e la situazione è sempre la stessa, sempre più esasperata, vista la sempre maggiore capacità produttiva delle macchine.

La crescita poi non può esistere senza inventare nuovi consumi, nuova cementificazione, infrastrutture inutili e distruttive (che richiedono montagne di menzogne per essere giustificate), nuovi rifiuti. Consumiamo già più che troppo, ma dobbiamo aumentare i consumi per uscire dalla crisi e dobbiamo costruire cose da cambiare rapidamente se no il mercato si ferma, mentre la terra è sempre più in degrado e abbandono! Non rendersi conto di queste bestialità vuol dire che ormai ci siamo bevuti il cervello. Ogni giorno bisogna inventare nuovi lavori inutili pagati non si sa da che (le scatole cinesi dei finanziamenti sono spesso poco chiare anche agli esperti). Eppure si va avanti illudendo i giovani che questa superficialità senza limiti saprà costruire un futuro per loro, con nuove specializzazioni per tutti i gusti, un posto per tutte le lauree moltiplicate senza limiti: immenso castello di carta che brucia risorse, conoscenze, sapienza, capacità, intelligenza, rapporti, in nome di un progresso che è l’anticamera del nulla. Il mondo dell’informatica, di internet, promette chissà quali progressi e possibilità mentre non è che una delle tante bolle (sempre più invadente e devastante) proprie del nostro tempo sempre più artificiale e astratto. Il problema del lavoro si può affrontare solo rivedendo alla radice l’impostazione del nostro modo di vivere e di produrre.

Una delle radici condizionanti in un modo totalizzante la vita degli uomini è lo sviluppo industriale, insieme all’agricoltura chimico-industriale, sua emanazione (Le radici più lontane sono forse da ricercarsi nell’intreccio tra riscoperta della Grecia classica e spirito cristiano che ha avuto il suo punto focale nel Rinascimento. Ma il tema è complesso e non si può ridurlo a poche battute). L’industria porta inevitabilmente alla distruzione dell’artigianato e quindi dell’unità del lavoro creativo dell’uomo; alla centralizzazione della produzione per ammortizzare il valore delle macchine; all’appiattimento dei bisogni e alla creazione di una enorme quantità di bisogni artificiali; al moltiplicarsi in modo vertiginoso di trasporti inutili; alla ricerca spasmodica di materie prime a basso costo (gran parte delle guerre e della fame del mondo sono legate a questo; ma sono lontane e il sistema complesso dei commerci mette grossi filtri alla comprensione del legame strettissimo con i nostri consumi); alla concentrazione del sapere e delle capacità nelle mani dei tecnici, rendendo le persone sempre più incapaci di fare quello che serve alla vita e quindi sempre più dipendenti e manipolabili.fer 3

Tutte quelle capacità che prima erano patrimonio di migliaia, milioni di persone, oggi sono ristrette a pochissime persone, necessarie per costruire gli archetipi per l’industria. E, oltre al già citato problema del lavoro, ci sono milioni di persone che non sanno più far nulla, diventando così dipendenti dalla produzione centralizzata (dipendenza che giunge al massimo nell’informatica). La plastica, con la sua possibilità di fare un’infinità di cose riassume bene questa dipendenza causata dall’eliminazione di ogni alternativa, che è necessariamente più lenta e richiede conoscenze e fatica, anche se più ricca umanamente e culturalmente. Questa dipendenza non è certo quel legame reciproco che unisce le persone in un villaggio, dove ognuno contribuisce sia con la sua arte, sia coi lavori comuni, a costruire quell’autonomia nel vivere sulla propria terra, che rende possibile un rapporto di amicizia tra i popoli. L’industria ha creato un impoverimento collettivo senza precedenti nella storia; ha atrofizzato non solo le membra ma anche le mente.

Produce grandi quantità di cose, trasportabili dovunque, a prezzi relativamente bassi, che devono essere vendute in grande quantità generando il consumismo contemporaneo. Questi oggetti hanno invaso ogni luogo creando quell’appiattimento uniforme di tutto che non ha nulla a vedere con l’unità. Inoltre rende ogni consumo una questione di soldi, non di valore. Ad esempio, se per spostare una montagna devo usare pala e piccone, devo avere motivazioni molto forti per farlo e ho bisogno della collaborazione di tutto un popolo per condurre a termine l’impresa. Con i mezzi tecnologici  spianare le montagne o abbattere migliaia di chilometri quadrati di foreste tropicali diventa un gioco, per il quale non occorrono né profonda convinzione, né forza morale, né alcuna altra grande dote umana, ma solo soldi. Quando girano i soldi si fanno un’infinità di lavori stupidi e dannosi; quando non ci sono i soldi si fa quello che è necessario per vivere e ci si aiuta.

Se con la tecnologia si fanno facilmente tante cose, ci riempiamo di tante cose non indispensabili, inutili. Se è richiesto impegno, fatica, costanza, conoscenza, allora si fanno solo le cose indispensabili e si conservano con cura fino alla loro fine, usando materiali facilmente riassorbibili dalla natura. “Guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”, dice la Genesi. Certo questo è il castigo per il peccato, ma un castigo dato da un Padre, che non vuole che i suoi figli si perdano, bensì che si riscattino; questa fatica, che diventa gioia inserendosi nel desiderio di salvezza del Padre, è la condizione del riscatto. E allora bisognerebbe stare attenti a sottrarsi a questa fatica che probabilmente ci indica anche la misura del nostro fare: cioè che noi facciamo con le nostre mani ciò di cui abbiamo bisogno e che ci accontentiamo di ciò che le nostre mani sanno fare o del suo esatto corrispondente. Se tutti lavorassero per guadagnare il pane, per la propria famiglia e per chi non ha la possibilità di farlo, e niente più, ci sarebbero cibo e libertà per tutti. Ma il lavoro manuale, la gratuità, sembrano perlomeno bizzarrie senza senso o da perditempo.

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Copertina: La Biblioteca Apostolica Vaticana in collaborazione con  l’Istituto Nazionale per la Grafica ha realizzato, in occasione del Grande Giubileo dell’Anno Duemila, una Pianta di Roma incisa da Tommaso Ferroni su rame ad acquaforte e bulino e stampata seguendo i procedimenti tradizionali della calcografia. In copertina e nelle altre immagini possiamo vedere parte del suddetto lavoro, visibile per intero alla Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Gabinetto delle Stampe.

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