La Chiesa dei tiepidi e i pilastri della teologia moderna

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di Giovanni Fabbrini

I primi tempi che ho ricominciato a frequentare la messa la Domenica, nel 2009, avevo un’abitudine che sto riprendendo: non chiudevo gli occhi una volta tornato a sedere dopo aver preso l’ostia.

Tra i giudizi di Cristo alle sette chiese, nel libro dell’Apocalisse, il peggiore è quello alla Chiesa di Laodicea. La Chiesa dei tiepidi, che si credono ricchi, ma sono poveri, nudi e ciechi. Viene spontaneo chiedersi se non sia la situazione di molti di noi. Come via di miglioramento il messaggio divino indica l’acquisto di oro purificato da fuoco, vesti bianche e collirio. Povertà, nudità vergognosa e cecità possono essere superate. Per quanto riguarda la “merce” da comprare, siamo nel simbolismo puro, inutile dirlo. Significativo soprattutto, per il discorso che volevo provare a fare, il richiamo al collirio. Consapevolezza, volontà, comprensione. Che dire poi della freddezza, che cozza col calore a volte simil–materno e ostentato che si vede spesso nelle parrocchie e la Domenica mattina su Rai 1.

La freddezza chiama in causa l’intelletto, la riflessione. Tutte le volte che si sente parlare di nuova teologia c’è il rischio di cadere in una serie sconfinata di equivoci: il rischio di finire a parlare solo di politica, il rischio di passare per quelli che vogliono affossare le certezze millenarie e via dicendo. Le chiese giudicate nell’apocalisse hanno ognuna di che migliorare ed evolvere. E come mostra la Chiesa di Laodicea, un miglioramento è necessario e non si può vivere del proprio passato. Voler recuperare a tutti i costi un passato ormai visibilmente superato dalla storia significa spesso contraddire in modo ipocrita le opere dei nostri padri e in definitiva rischiare di sputare addosso a noi stessi. Eppure si potrebbe parlare di nuova teologia coerentemente con la vera base del ragionamento, i testi sacri, e coerentemente con la nostra buona, almeno così speriamo, coscienza. La teologia medievale è fondata, almeno in una sua parte sostanziale, sulla paura.

La paura di perdere la grazia, per il fedele, la paura di venire aggrediti dall’esterno, per la comunità. Niente di tutto questo ci deve turbare se si fanno le dovute evoluzioni, o meglio il dovuto rinnovamento. La paura del male non ci deve incatenare al bene e ai suoi simboli fisici, non ci deve rendere schiavi del positivo che abbiamo visto e soprattutto non ci deve togliere la volontà della nostra adesione al credo. Meglio ancora diciamo che se i pilasti della teologia medievale sono la paura, la sottomissione e la tolleranza, i pilastri della teologia moderna sono, o dovrebbero essere, la sicurezza che deriva da una ricerca consapevole e volontaria, l’emancipazione del fedele tramite la consapevolezza e poi la tolleranza; la tolleranza verso chi non fa parte della comunità o segue altre dottrine.

Per quanto mi riguarda reputo il passaggio possibile, soprattutto se non si cede alla tentazione di squalificare ogni tentativo come pericoloso, equivoco e ispirato a dottrine in qualche modo inferiori o sinistre. Non c’è negazione che paghi; non possiamo rispondere ai rischi della sessualità eliminandola, come non possiamo rispondere al rischio di perdere la fede incatenandoci alla prima panca della chiesa. Non possiamo, allo stesso modo, rispondere al rischio della deriva istituzionale rafforzando una gerarchia in cui crediamo sempre di meno. E allo stesso modo, non possiamo rispondere al rischio di vedere sfaldata la nostra comunità con l’intolleranza verso chi ne sta fuori.

Forse un giorno non battezzeremo i nostri piccoli in via automatica ma aspetteremo di vedere se vorranno fare un cammino volontario. Forse un giorno i preti prenderanno moglie, nel caso in cui vogliano farlo. Il celibato, come l’indissolubilità del matrimonio, andrebbe applicato capendo a cosa serve e perché è stato istituito. E quale modo migliore che richiamarsi alle scritture direttamente ?!  Forse arriveremo anche a considerare il dubbio non una macchia nella nostra perfetta aderenza al messaggio, ma un motore che ci spinga alla ricerca, al miglioramento della comprensione del messaggio stesso. Saremo più emancipati, con meno problemi e con meno paure e non sopprimeremo la nostra naturale complessità. Certo che ci sono dei rischi, come in ogni impresa degna di una qualche nota.

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Foto: “Fulmine a San Pietro”, Alessandro di Meo

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