Di nuovi e antichi farisei, parte II

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di Giovanni Fabbrini

Visto il positivo riscontro dell’articolo della settimana precedente, bisogna per lo meno fare alcune precisazioni che messe insieme valgono il secondo articolo.

Il Fariseismo è un concetto molteplice: si può intendere nell’accezione teologica, nell’accezione storica come in quella sociologica. Finora ho trattato il fariseismo come atteggiamento verso il sacro e come morale attinente un comportamento sociale, eravamo quindi nel vasto campo dell’accezione teologica. Forse, rimanendo pure in tale ambito, non ho sottolineato abbastanza alcuni aspetti ed è questo che mi propongo di fare con l’articolo di oggi.

Ma vi è, va detto per completare il panorama, oltre al fenomeno teologico, il fenomeno storico: la setta di Farisei nei secoli intorno alla nascita di Gesù era la più presente in Terra Santa. La setta si considerava custode della religione ufficiale del popolo di Israele; non si trattava tuttavia di un popolo sovrano, e quindi come abbiamo detto, l’appartenenza religiosa prendeva i connotati di una setta o fazione. I Vangeli non sono l’unica fonte storica dell’epoca che parla dei Farisei (si ha anche Tito Flavio Giuseppe, storico romano di origine ebraica). Ad oggi però il Fariseismo ha generato in qualche modo l’Ebraismo, se non necessariamente da un punto di vista di attitudine spirituale, per lo meno da quello oggettivo del procedere storico. Si passa così ad una terza accezione riguardante la sociologia contemporanea delle comunità ebraiche. Gli Ebrei religiosi sono gli eredi storici e teologici del Fariseismo, senza che questa sia in nessun modo una accusa. Ho già spiegato come il Fariseismo inteso come attitudine spirituale sia presente a mio avviso tra i gentili in forme molto forti e pericolose, a dimostrazione del fatto che non si tratta di qualcosa necessariamente legato ad una appartenenza religiosa, anche se l’idealismo laico o il moralismo sono certamente meno ricchi di anticorpi verso il Fariseismo rispetto al Cristianesimo.

Ma vediamo di finire una volta per tutte la trattazione sull’ambito della prima accezione. Al dì la della tendenza alla pulizia superficiale che nasconde un bisogno insoddisfatto di purezza interiore (Lc 11, 37-41) e delle profezie operate da Gesù sul fatto che il popolo di Israele non lo avrebbe riconosciuto e sarebbe stato dannato (Mt 21, 43) avrei esaurito la descrizione. Eccetto che per un punto, che poi è quello fondamentale. La critica all’osservanza delle tradizioni. L’argomento è affermato e ribadito con forza e presenta aspetti controintuitivi. Non è forse la Chiesa piena di tradizioni? Non sono i Cattolici dei tradizionalisti, seguendo dottrine vecchie di millenni?

Forse è il caso di fare un back to basick al tempo del Messiah per capire meglio. Potremmo dire che Gesù era non un tradizionalista ma piuttosto un fondatore; la religione già esistente, propria del popolo di Israele e ispirata dai profeti e dai patriarchi come Mosè e Davide, è stata rettificata una volta per tutte sostanzialmente in due modi. Primo: specificando alcuni messaggi propri dei testi sacri ma espressi fino a quel momento in modo parziale e per certi versi incompleto. Secondo: spiegando oltre al quia il quomodo per quanto concerne il comportamento generato dall’ispirazione di quei testi. E’ così che sono state poste le basi per la fondazione della Chiesa e della civiltà cristiana, la quale per essere conservata in tutta la sua pienezza richiede una forte coerenza ai principi, ma si tratta appunto di principi vitali e di conseguenza attuali che per forza di cose il verbo conservare e il sostantivo tradizione possono inquadrare in modo poco preciso.

In cosa consiste questa critica alle tradizioni? Di che tradizioni si tratta? In essenza, si tratta di lavarsi le mani fino ai gomiti prima di mangiare e di mandare i figli a fare la Korbàn, un’offerta sacrificale da parte dei primogeniti che sottraeva risorse alla famiglia (il concetto è citato in Mt e ancor più esaustivamente in Mc 7, 1-13). E’ tutto qui? Sembrerebbe quasi di dare tanta importanza a  poco. In realtà nell’atteggiamento di chi obbligatoriamente deve lavarsi le mani fino ai gomiti prima di mangiare Marco mostra un male profondo, l’osservanza della regola anche una volta riconosciuta essa in quella specifica circostanza come irrazionale. Ecco il processo che rende l’uomo schiavo della regola, la sua creatura. Il concetto ha una portata fortissima. Superare l’osservanza di regole superficiali e superficialmente imposte, che portano oggi all’adorazione non tanto del benessere economico, che spesso la mentalità farisaica condanna, quanto del lavoro come dovere morale, della salute come idolo e dei riconoscimenti sociali come uniche vere soddisfazioni. Abbiamo guadagnato di certo una maggiore libertà. La libertà anche di derogare, quando ha senso farlo. Questo si vede in particolar modo per quanto riguarda l’osservanza del Sabato.

Perché essere schiavi di una regola? Concentriamoci sull’essenza. Il Sabato non si lavora per imitare Dio che si è riposato alla fine della creazione – questo dicono gli Ebrei – ma molto spesso il riposo forzoso dalle attività crea situazioni più pesanti dell’attività stessa. Pensiamo a un asino che cade in un pozzo o a una macchina in divieto di sosta che viene multata e portata via dal carro attrezzi. L’atteggiamento farisaico è quello di assistere impotenti, perché di Sabato bisogna riposarsi, anche se il dover assistere impotenti comporta uno stress maggiore che l’intervenire. E allora dov’è il riposo? Non c’è, scompare. In questo modo per rispettare la regola viene annullato il comandamento. Proprio come un genitore che invece di essere onorato da suo figlio lo manda a compiere un’offerta sacra; questo rapportato ai giorni nostri a me ricorda, già lo dissi, un giovane di buona famiglia che deve fare l’università per questioni di prestigio e non può aiutare i genitori nell’azienda di famiglia o non li può assistere se anziani; a ennesima riprova del fatto che i gentili oggi sono tutt’altro che al riparo dal Fariseismo.

Oppure ricordiamo qualche anno fa una polemica su alcune candidature presentate con qualche minuto di ritardo rispetto alla scadenza e un’altra dello stesso periodo sul fatto che un partito a conti fatti non presentava abbastanza firme per essere accettato; ora la domanda è, a che serve un numero minimo di firme? Ad evitare che i partiti creati da quattro amici senza alcun seguito possano entrare nella scheda elettorale! E allora come si fa a voler scartare un partito di una comprovata presenza sociale (mi sembra fosse circa all’otto per cento su scala nazionale), se questo di qualche firma per una svista? Davvero una bella questione! Di nuovo ci si dimentica del perché una regoloa esiste e di conseguenza non si sa più come si usa. Proprio in queste tendenze si vede la pochezza umana; l’incapacità di essere vigili, la pigrizia mentale che vuole un comodo puntello fermo al posto di uno spirito solido e vivificante. Dobbiamo evitare di essere schiavi, nostra naturale tendenza, liberandoci con l’amore che conduce alla libertà.

Un’ultima curiosità riguarda il fatto che l’Ebraismo attuale non usa la parola Dio nelle discussioni teologiche, applicando rigidamente il comandamento “Non nominare il nome di Dio invano”; mentre per un Cristiano la nomina invano è interpretata come una nomina blasfema o fuori luogo, per un Ebreo la nomina invano può essere intesa come nomina in un testo che tratta materia teologica, poiché non si sa se la trattazione sia vana o meno agli occhi di Dio. Si preferisce dunque una “D.” e si crede così di tenersi lontani dalla contraddizione del comandamento.

E’ importante insistere anche perché si tratta di un tema ingiustamente dimenticato, messo al bando per ragioni che non conosco. Le uniche volte che ho sentito parlare in televisione o nei giornali di Fariseismo si trattava rispettivamente di una puntata dei Simpson in cui Homer accusa i vicini di casa che si arruffianano Bush Senior e di una recente dichiarazione di Letta a seguito dell’estromissione dalla Presidenza del Consiglio. Ma sono casi rari e come dicevo non rendono giustizia alla centralità del tema (gli esempi sono in ordine di tempo, non di importanza).

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Copertina: Marc Chagall, Mosè riceve le tavole della legge, 1950-1952.

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